Questo è un articolo dell’Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che – in collaborazione con Repubblica – offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 25 Settembre 2022. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L’Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l’obiettivo di favorire la discussione attraverso l’organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.
Coordinamento scientifico e editoriale a cura di:: Luigi Ceccarini (Università degli Studi di Urbino); Marino De Luca (University of Sussex); Domenico Fruncillo (Università degli Studi di Salerno); Fulvio Venturino (Università degli Studi di Cagliari); Antonella Seddone (Università degli Studi di Torino).
di Chiara Fiorelli (Università di Bologna) – la Repubblica 02/09/2022
Una visione ingenua della politica rimanda all’idea che le campagne elettorali, così come l’iniziativa politica sul territorio, possano essere –o anzi debbano essere- frutto dell’attività volontaria di militanti, iscritti, elettori e simpatizzanti, e che non ci sia bisogno del vile denaro. Un’idea ancorata
all’idealtipo del partito di massa, ormai creatura estinta e appartenente ad un’altra era.
L’emozione suscitata di recente da nuovi soggetti apparsi sulla scena politica ha dato inizialmente l’impressione che una politica fatta solo di attivismo e lavoro volontario fosse ancora possibile.
Tuttavia l’emozione, per sua natura, tende a scemare con il tempo e per mantenersi in vita, un
partito, o movimento che sia, ha bisogno di organizzarsi e per farlo necessita di risorse, finanziarie
in primis. Da qui l’urgenza di comprendere le dinamiche di finanziamento che caratterizzano il
sistema italiano e la costruzione delle campagne elettorali.
In linea con la maggior parte dei paesi europei che negli stessi anni adottarono misure simili, il
finanziamento pubblico in Italia fu introdotto nel 1974 (Legge Piccoli) allo scopo, almeno quello
dichiarato, di sottrarre i partiti dalle insidie, dagli interessi e dalla fascinazione dei privati.
Non è bastato. La cronaca politica e le vicende giudiziarie degli ultimi trent’anni hanno mostrato
altro. La crescita dei costi della politica ha contribuito ad allontanare, nella percezione degli
elettori, i partiti dalla società civile, dal loro impegno verso la propria legittimazione dal basso,
relegandoli in una sorta di torre d’avorio garantita dallo Stato.
La riforma del finanziamento alla politica introdotta con la legge n.13/2014 ha progressivamente
lasciato i partiti privi dei rimborsi elettorali. I crescenti costi della politica, gli scandali e la crisi
economica degli ultimi anni hanno indotto il legislatore ad una drastica revisione del sostegno
pubblico. Anche qui l’intento (dichiarato) era di spingere i partiti a ri-attivarsi per sviluppare la loro
capacità estrattiva dal privato, eliminando i finanziamenti diretti dal 2017.
Quello pubblico è rimasto nella forma di finanziamento indiretto, attraverso sgravi fiscali e lo
strumento del 2×1000 che permette ai contribuenti di destinare parte della loro imposta sul
reddito a sostegno di un’organizzazione politica registrata.
I dati sono molto chiari su questo tema. Tra il 2008 e il 2016, le entrate dei partiti si sono ridotte
dell’84%. Nel 2021, la media delle entrate dei maggiori partiti italiani (PD, M5S, Lega, FdI) è stata di
8 milioni di euro, di questi circa metà proviene dal fondo 2x 1000. Lo strumento però risente di
una scarsa adesione da parte dei cittadini. Secondo i dati del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, solo il 3% dei contribuenti sceglie di destinare il 2×1000 ad una formazione politica.
Ma le preoccupazioni maggiori emergono guardando le dichiarazioni relative alle donazioni liberali
riportate da partiti e candidati.
Se consideriamo i quattro maggiori partiti, circa il 70% delle donazioni liberali dichiarate nel 2018
proviene da membri del partito eletti in arene nazionali, sovra-nazionali o regionali.
L’abitudine alle donazioni da parte di eletti è di lungo corso (e riconosciuta nella maggior parte
degli statuti), ma è ovvio che il loro peso specifico all’interno dei partiti, in assenza dei rimborsi
elettorali, sia notevolmente aumentato.
Altra tendenza, che dovrebbe destare attenzione, è la volontà dei finanziatori privati di privilegiare
singoli candidati anziché partiti. Complessivamente, i candidati alle elezioni nazionali 2013 e 2018
hanno dichiarato un ammontare di donazioni private maggiore dei loro partiti d’appartenenza,
dimostrando di avere capacità attrattiva propria e un certo potere estrattivo.
Dati di fatto: le erogazioni tramite il 2×1000 non decollano, le donazioni private ai partiti nazionali
provengono per lo più da eletti, e i finanziatori privati esterni preferiscono investire direttamente
sui singoli candidati.
Oggi i partiti si trovano ancora nella torre d’avorio e scontano dinamiche elettorali e di
finanziamento che li hanno resi ancora più deboli. Gli attori principali a garanzia del pluralismo
democratico si trovano nelle mani dei pochi bendisposti contribuenti, del privato vero e
interessato, ma, soprattutto, in balìa dei propri eletti.
Osservare le dinamiche finanziarie dei partiti consente di riflettere sulle radici della loro legittimità
sociale, la loro base di riferimento. Nel sistema attuale, il peso di candidati ed eletti appare
imprescindibile per la sopravvivenza finanziaria dell’organizzazione. Resta da capire come questo
possa influire sulle scelte interne dei partiti, la composizione delle liste e le campagne elettorali. Il
rischio riguarda la distribuzione del potere interno con il progressivo spostamento verso le
individualità a scapito del soggetto collettivo. Peraltro, in questo momento, questi rischi valgono
per tutti gli attori in campo. Nessuno escluso.
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