Questo è un articolo dell’Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che – in collaborazione con Repubblica – offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 25 Settembre 2022. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L’Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l’obiettivo di favorire la discussione attraverso l’organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.
Coordinamento scientifico e editoriale a cura di: Luigi Ceccarini (Università degli Studi di Urbino); Marino de Luca (University of Sussex); Domenico Fruncillo (Università degli Studi di Salerno); Antonella Seddone (Università degli Studi di Torino); Fulvio Venturino (Università degli Studi di Cagliari).
Sondaggi, prospettive dei partiti e aspettative sui risultati
Paolo Natale (Università degli Studi di Milano Statale) – la Repubblica 08/09/2022
Si è sottolineato spesso, da diversi commentatori avveduti ma a volte anche da chi non maneggiava correttamente la materia, producendo critiche un po’ astiose, come i sondaggi possano portare a due evidenti problemi nel comportamento degli attori politici: la “sondomania” e la “sondocrazia”. La prima distorsione può venir descritta come l’incapacità di molti decisori politici e sociali di prendere appunto decisioni rilevanti senza l’ausilio di una preventiva indagine demoscopica; la seconda è legata invece al perverso comportamento di chi si lascia guidare non già da scelte razionali, quanto dall’opinione pubblica, certificata dai risultati dei sondaggi.
Sondomania e sondocrazia sono dunque gli aspetti più evidenti del “bisogno” di un sondaggio, ma non è soltanto per questo che i risultati delle indagini demoscopiche sono (diventati) così rilevanti nelle società occidentali. La ragione più profonda della loro importanza è legata al fatto che senza sondaggi non sapremmo più chi siamo, quali siano le opinioni prevalenti nel nostro e negli altri paesi, quali i gusti degli utenti televisivi, il tasso di occupazione e di disoccupazione, la fiducia nelle istituzioni, nella politica e nei partiti, il giudizio sui più importanti leader politici e sul governo, la percezione generale dello stato economico attuale e le sue prospettive future, le intenzioni di voto. E molto, molto altro ancora. Per questi motivi i sondaggi ci sono costantemente utili, sebbene non siano privi di distorsioni, prima fra tutte il ben noto “errore di campionamento” (per chi volesse saperne di più, consiglierei il mio libro “Sondaggi”, in uscita da Laterza il mese prossimo).
Ma torniamo ai due concetti più sopra descritti. A volte effettivamente accade che il decisore non riesca, o non voglia, agire in certi modi per non “scontentare” l’opinione pubblica. Quando il Pd, ad esempio, decise qualche tempo fa di non insistere sullo “ius soli” per non inimicarsi quella parte di elettorato vicino al centro-destra, lo fece proprio in ragione di un calcolo elettorale. Ma, altre volte, il comportamento dei partiti pare essere condizionato più da scelte autonome che non dai risultati dei sondaggi: il caso più recente del ritiro della fiducia al governo Draghi, da parte di Movimento 5 stelle, Lega e Forza Italia, secondo modalità certo differenziate, ne è l’esempio più eclatante.
Secondo tutti i sondaggi disponibili, la grande maggioranza degli italiani dichiarava una elevata fiducia nei confronti di Mario Draghi e della sua compagine governativa, e non vedeva di buon occhio una fine anticipata della legislatura, in modo da permettere al Presidente del Consiglio di portare a compimento le misure che l’Europa ci chiedeva per finanziare il PNRR.
Ciononostante, quelle tre forze politiche presero decisioni in aperto contrasto con i desideri dell’opinione pubblica, in maniera in qualche modo coraggiosa, e ben sapendo che avrebbero forse corso dei rischi in termini di consenso elettorale, alle successive consultazioni politiche. Esistono ancora dunque, direi per fortuna, margini di manovra autonomi, giusti o sbagliati che siano, ma che evitano di farsi condizionare e consigliare da ciò pensa la maggioranza della popolazione.
E, a volte, queste scelte non paiono produrre esiti esiziali per chi le compie. Il caso delle odierne tendenze di voto ne è la prova lampante. La coalizione di centro-destra, che annovera tra le sue fila tre delle forze politiche “colpevoli” del ritiro della fiducia a Draghi (oltre a Fratelli d’Italia), non pare averne risentito quasi per nulla, nonostante il governo presieduto dall’ex-capo della BCE avesse livelli di consenso mai raggiunti da nessun precedente premier, vicino al 70% degli elettori.
Dunque, i sondaggi odierni ci raccontano di una popolazione elettorale che pare, almeno per il momento, premiare nettamente il centro-destra che, secondo i calcoli di numerosi analisti, potrebbe avvicinarsi – se non superare – la fatidica quota di 2/3 dei seggi parlamentari, necessaria per legiferare anche su temi costituzionali senza il bisogno dell’approvazione referendaria. E sarebbe questa una prima volta in senso assoluto nella storia italiana.
In termini partitici, l’orientamento di voto prevalente, sempre secondo i “famigerati” sondaggi, vede una serrata competizione tra Fratelli d’Italia e il Partito Democratico per aggiudicarsi il primo posto tra le forze politiche, un’ulteriore competizione per il terzo posto tra Lega e Movimento 5 stelle e, infine, quella tra Forza Italia e il terzo polo di Calenda e Renzi per la quinta piazza. Questi sono i duelli da tenere sotto osservazione nel momento dello scrutinio, nella notte tra il 25 e il 26 settembre.
Ma chi vincerà alla fine? Per gli italiani non ci sono dubbi: interrogati a questo proposito, la stragrande maggioranza ritiene molto probabile una vittoria del centro-destra tra le coalizioni e di Giorgia Meloni tra i singoli partiti. Di solito, in passato, ci hanno azzeccato, in modo più preciso delle previsioni di molti politologi.
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